33 divina commedia
33 divina commedia
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interpretation of “canto 33” of Divina Commedia by Dante
Beginn des 33. Gesanges der Hoelle in deutsch nach der Uebersetzung von Johann von Sachsen 1801-1873
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CANTO TRENTESIMOTERZO
La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a' capelli del capo ch'elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando, pria ch'io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, parlare e lacrimar vedrai inseme.
Io non so chi tu se' né per che modo venuto se' qua giú; ma fiorentino
mi sembri veramente quand'io t'odo.
Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino, e questi è l'arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perch'i son tal vicino.
Che per l'effetto de' suo' mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso, ciò è come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.
Breve pertugio dentro dalla muda
la qual per me ha il titol della fame,
e 'n che conviene ancor ch'altrui si chiuda,
m'avea mostrato per lo suo forame piú lune già, quand'io feci 'l mal sonno che del futuro mi squarciò 'l velame.
Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e' lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studiose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s'avea messi dinanzi dalla fronte.
In picciol corso mi paríeno stanchi lo padre e' figli, e con l'agute scane mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli ch'eran con meco, e domandar del pane.
Ben se' crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l'ora s'appressava che 'l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti' chiavar l'uscio di sotto all'orribile torre; ond'io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
Io non piangea, sí dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: 'Tu guardi sí, padre! che hai?'
Perciò non lacrimai né rispuos'io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l'altro sol nel mondo uscío.
Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch'i' 'l fessi per voglia di manicar, di subito levorsi
e disser: 'Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia'.
Queta'mi allor per non farli piú tristi; lo dí e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi?
Poscia che fummo al quarto dí venuti, Gaddo mi si gettò disteso a' piedi, dicendo: 'Padre mio, ché non m'aiuti?'
«Quivi morí; e come tu mi vedi, vid'io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dí e 'l sesto; ond'io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dí li chiamai, poi che fur morti: poscia, piú che 'l dolor, poté 'l digiuno».
Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese 'l teschio misero co' denti,
che furo all'osso, come d'un can, forti.
Ahi Pisa, vituperio delle genti del bel paese là dove 'l sí sona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sí ch'elli annieghi in te ogni persona!
Ché se 'l conte Ugolino aveva voce d'aver tradita te delle castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l'età novella, novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata e li altri due che 'l canto suso appella.
Noi passammo oltre, là 've la gelata ruvidamente un'altra gente fascia,
non volta in giú, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lí pianger non lascia, e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l'ambascia;
ché le lagrime prime fanno groppo, e sí come visiere di cristallo, rïempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che sí come d'un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo,
già mi parea sentire alquanto vento:
per ch'io: «Maestro mio, questo chi move? non è qua giú ogne vapore spento?»
Ed elli a me: «Avaccio sarai dove di ciò ti farà l'occhio la risposta, veggendo la cagion che 'l fiato piove».
E un de' tristi della fredda crosta gridò a noi: «O anime crudeli, tanto che dato v'è l'ultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sí ch'ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna, un poco, pria che 'l pianto si raggeli».
Per ch'io a lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna, dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,
al fondo della ghiaccia ir mi convegna».
Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo; io son quel dalle frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».
«Oh!» diss'io lui, «or se' tu ancor morto?» Ed elli a me: «Come 'l mio corpo stea
nel mondo su, nulla scïenza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l'anima ci cade, innanzi ch'Atropòs mossa le dea.
E perché tu piú volontier mi rade le 'nvetriate lacrime dal volto, sappie che tosto che l'anima trade
come fec'io, il corpo suo l'è tolto
da un demonio, che poscia il governa mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto.
Ella ruina in sí fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso dell'ombra che di qua dietro mi verna.
Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca d'Oria, e son piú anni poscia passati ch'el fu sí racchiuso».
«Io credo» diss'io lui «che tu m'inganni; ché Branca d'Oria non morí unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni».
«Nel fosso su» diss'el «de' Malebranche, là dove bolle la tenace pece,
non era ☀giunto ancora Michel Zanche,
che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, e
d un suo prossimano
che 'l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi». E io non lil'apersi;
e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi, uomini diversi d'ogne costume e pien d'ogni magagna, perché non siete voi del mondo spersi?
Ché col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
ed in corpo par vivo ancor di sopra.
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